“Istante propizio, 1855” è il romanzo di Patrick Ourednik scritto dall’autore ceco nel 2006 e pubblicato in Italia da Exorma nella traduzione di Elena Paul. In questa opera l’attenzione di Ourednik si concentra sul Sudamerica, dove un gruppo eterogeneo di anarchici, comunisti e libertari provenienti dalle più disparate nazioni del vecchio continente decide di fondare una colonia autosufficiente e isolata dalla società contemporanea, rappresentata come corrotta e innaturale. Ispirandosi alla storia e alle idee del veterinario e anarchico italiano Giovanni Rossi (anticipando però le sue vicende: Rossi era nato solo nel 1856), lo scrittore mette in scena la cronistoria della colonia Fraternitas, dalla nascita del progetto fino al suo fallimento (anticipato fin dalle prime pagine; non ci è imputabile quindi l’aver rovinato il finale).
Il 1855 non è una data memorabile come il 1492 o il 1789; non ci sono state grandi battaglie, rivoluzioni o riforme sociali. Mezza Europa si combatteva nella lontana Crimea, l’Italia era in piena seconda guerra d’indipendenza e in Francia da due anni Napoleone III governava nel periodo che è passato alla storia come “il secondo impero”. Per quanto riguarda le arti, il Romanticismo stava consumando gli ultimi residui di energia rimastagli e gli artisti erano alla ricerca di nuove esperienze che avrebbero portato al verismo, naturalismo e simbolismo nella letteratura, impressionismo e postimpressionismo nelle arti figurative. Nel 1855 Nietzsche e Verlaine compivano undici anni, Rimbaud appena uno, due Van Gogh e nasceva Pascoli; solo due anni dopo sarebbero usciti Les Fleurs du mal di Baudelaire e Madame Bovary. Nei salotti europei si ascoltava Wagner e si parlava di progresso, fra il popolo si leggevano romanzi-feuilletton (sono gli anni dei Dumas) e le città cambiavano forma apprestandosi a cogliere la sfida della modernità.
Il libro si apre con una lunga lettera che colui che teorizzò e diede vita alla colonia scrive a una vecchia amata: Julie. In questa missiva racconta la sua vita – della sua nascita, della sua attività da pamphlettista e veterinario, della colonia in Brasile – e le sue idee sulla libertà, il trionfo del libero arbitrio e della volontà personale. In pieno stile ottocentesco, con grandi involuzioni e retorici appelli a vuoto colmi di pathos ci si trova già calati nel clima utopistico ottocentesco. L’argomentare stretto e naif dello studioso apre al mondo dell’ideale, convincendo l’ignaro lettore della bontà delle idee esposte e portandolo quasi a “fare il tifo” per il buon esito dell’esperimento.
Ma i germi del fallimento spuntano con la nascita dell’impresa, come mostra la seconda parte del testo, redatta sotto forma di diario tenuto dal bresciano Bruno, un abitante della colonia. In questo diario è raccontata prima l’odissea marittima del gruppo di coloni sulla nave Croce del Sud dal porto di Le Havre fino all’arrivo in Brasile, e poi gli ultimi giorni della colonia stessa. Già dalle prime righe del diario è evidente come saranno le grandi idee, i sommi ideali fino ad allora propugnati in teoria, a soccombere alla prova della pratica. Sin dai primi giorni di navigazione sono i contrasti tra i diversi gruppi nazionali – di italiani, francesi, austriaci, tedeschi e qualche magiaro – e le diverse filosofie politiche – anarchici, comunisti e libertari – a dominare, tanto che per arginare le spinte centrifughe si decide di istituire statuti, commissioni e votazioni, in altre parole ci si affida all’aborrito “parlamentarismo stupido”, ci si affida alla via che si cercava di fuggire.
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