Vediamo tutto quello che c’è da sapere a proposito di un grande scrittore e poeta italiano tutto da riscoprire: Stefano Docimo
L’Italia è un Paese che ha fatto da casa a numerosi artisti, soprattutto poeti, i quali con le loro straordinarie parole, hanno catturato l’attenzione di molti lettori descrivendo i loro pensieri, le loro emozioni e le terre italiane, protagoniste di molte poesie attraverso i secoli. Tra gli artisti meritevoli di menzione, che hanno saputo comunicare le loro emozioni in modo magistrale, c’è senz’altro Stefano Docimo, un poeta e scrittore che va assolutamente scoperto (e riscoperto) perché ancora troppo sottovalutato e, in alcuni casi, criticato in modo ingiusto. Per questo motivo, in questo articolo, desideriamo dedicare spazio a questo personaggio che, attraverso i suoi scritti, ha affascinato numerosi lettori. Ecco tutto quello che c’è da sapere a proposito.
Stefano Docimo (1945-2014) rappresenta una delle voci più autorevoli della scena poetica italiana. Nato da una famiglia borghese romana, presto si allontana da quel mondo e si avventura negli anni Sessanta e Settanta nel territorio delle avanguardie e delle sperimentazioni insieme a compagni d’avventura come Franco Cavallo, Mario Lunetta e Valentino Zeichen. Non esita a condividere i suoi versi in riviste rivoluzionarie come Marcatré e La Taverna di Auerbach.
Il suo debutto ufficiale come poeta avviene nel 1985 con l’audace Ponti d’oro, seguito nel 1987 dallo straordinario La città di Liebeshandel, oggetto di analisi ermeneutiche.
Docimo ama provocare e disturbare i suoi lettori: popola i suoi testi densi di frasi contorte che, mentre risuonano, si espandono in varie direzioni, si moltiplicano, si arricchiscono di significati ambigui e sovversivi. Dal suo universo letterario emergono rivolte incompiute, colpevoli represse, immersioni inconsapevoli nel futuro, fuggite violente nel passato, ironie sagaci, connessioni grottesche, amori dolciastri, erotismi e carnalità liberatorie.
Docimo si distingue come un provocatore innovativo, in anticipo rispetto alla tradizionale dialettica e alla maschera ancora presente dell’io. Introduce deliberatamente il caos nell’ordine poetico, mescolando i discorsi che sembrano arrivare a una conclusione ma che riprendono slancio ad ogni strofa in un racconto senza fine, denso e innovativo come una stella collassata.
Abbandonando le convenzioni, entra ed esce dalle pagine con i suoi motto irriverenti, lampi, fragori e fulmini, in perfetta armonia con le sperimentazioni musicali contemporanee di Luigi Nono, Luciano Berio e Sylvano Bussotti.
Docimo smantella i pilastri della poesia convenzionale per ricostruirli, privati del loro simbolismo convenzionale, con i suoi pasticci maccheronici, autentici pezzi teatrali da recitare all’aperto. Per affrontare la complessità della realtà, spinge all’estremo l’oggettivazione e l’arbitrio personale, creando un cortocircuito ardente, una progressione incessante verso la libertà espressiva ed esistenziale.
Si tratta di abbracciare il passaggio epocale da una poesia ermetica e metafisica a una scrittura poetica impegnata, in bilico tra la tradizione e la contemporaneità.
Docimo si pone in contrasto con il destino della poesia, riportandola sulle barricate e restituendola alla sua essenza contraddittoria, alla sua mutevole mobilità, alla sua irriverenza.
Nel suo uso monumentale e sublime della lingua, la poesia languisce nel già detto e nella sua innocua accarezzatura di una realtà chiusa nella sua alterità. Da qui la necessità di indagare se l’immaginario poetico conservi ancora una minima libertà e innocenza.
Con la sua mescolanza originale di linguaggio popolare e tradizione letteraria, Docimo espone con ricchezza di dettagli la sua retorica movimentista, contribuendo a una rinascita delle avanguardie.
Dopo aver esordito molto giovane come poeta visivo su “Marcatré“, Docimo ha iniziato a pubblicare le sue poesie negli anni Ottanta, periodo durante il quale organizzava incontri stimolanti presso gli spazi dei “Magazzini Generali”. I suoi primi titoli includono “Ponti d’oro” (il Ventaglio, 1985) e “La città di Liebeshandel” (Hetea, 1987), anche se una revisione filologica della sua opera potrebbe portare a modifiche nelle date di pubblicazione. Al momento, ci atteniamo ai dati ufficiali: l’inizio è segnato da una breve fase compositiva in cui l’esperienza della contestazione si rarefa e si disperde.
Tuttavia, presto la scelta stilistica opta per il verso lungo, di ampio respiro, di flusso verbale incontenibile. Il verso si avvicina alla prosa e spesso si mescola ad essa senza distinzioni nette. Non più poesia e racconto, ma scrittura in tutte le sue forme, ovvero ritmo incalzante, un battere di “piedi” che richiama alla mente la metrica antica che ritorna, più o meno mascherata, verso la fine del Novecento. Questa misura smisurata caratterizza le migliori prove di Docimo.
In questo contesto, emerge una sorta di “demone barocco“, che lo porta a recuperare un linguaggio obsoleto e a operare senza remore nella mescolanza linguistica, prediligendo la frammentazione e affondando nei temi della corporeità materialistica e trasgressiva, con richiami alla tradizione rabelaisiana e folenghiana. Il suo lavoro più tardo e rappresentativo, “Corpo del testo assente” (2015), sintetizza e condensa questa opera magmatica, ma resta solo una selezione, una punta dell’iceberg. L’opera di Docimo rimane in attesa di una precisa sistemazione e del recupero dei testi dispersi o inediti.
Aggiungiamo che va assolutamente presa in considerazione anche la sua opera in prosa, in particolare “Tratto di scena. Flugfly” (Dismisura, 1986), un vero e proprio antiromanzo caratterizzato da una scrittura senza respiro e da una struttura narrativa intricata, con personaggi dal ruolo indefinito e relazioni complesse. Questo testo si distingue per la sua continua ibridazione dei livelli di discorso e per il linguaggio vivace e denso di immagini, citazioni e inserti che ampliano il testo critico-teorico a tutti gli effetti. Un testo che, pur essendo complesso e ricco di interruzioni, è anche creativo e originale.
Docimo ha svolto un’importante attività critico-teorica sulla rivista online “Reti di Dedalus” dal 2006 al 2014, raccolta poi da Marco Palladini in un insieme praticamente inedito. Nelle sue riflessioni, Docimo evita di assumere un atteggiamento prescrittivo o dogmatico, ma piuttosto si avvale di una teoria richiamata attraverso il dialogo con altri testi, presentandola sotto forma di recensioni apparentemente innocue. La sua critica si caratterizza per un giudizio controcorrente, affrontando le formule alla moda e cercando di cogliere i motivi di fenomeni sintomatici, come il ritorno della “forma-manifesto”.
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