L’impatto della produzione tessile sul nostro pianeta: da Atacama alle produzioni fast fashion, un sistema che divora il pianeta.
Parliamo di ambiente e di crisi ambientale. Sì, perché se parliamo della produzione tessile e dell’industria che si cela dietro il mondo del vestiario, ci troviamo davanti una delle produzioni più inquinanti dell’apparato industriale. Non ci rendiamo conto dell’impatto dei consumi e della produzione che l’industria tessile nasconde dietro un’etichetta e un marchio. Un velo di maya che abbiamo paura a squarciare, forse coscienti di cosa potremmo scoprire, un mondo che ha dentro di sé situazioni al limite della follia, come la discarica a cielo aperto di Atacama.
Ma la discarica non è frutto di uno sventurata successioni di eventi, ma di un attento sistema che, nella sua produzione di massa, ha portato l’intero mercato ad ambire produzioni di fast fashion. Ma andiamo per gradi, per riuscire a comprendere cosa sia Atacama dobbiamo prima capire cosa stia succedendo nel mondo della produzione tessile, iniziamo quindi il nostro ciclo inquinante. Parliamo di fast fashion, una produzione massiccia di capi d’abbigliamento che per la loro bassa qualità e per il continuo trasformarsi sulle passerelle della settimana della moda autunnali e primaverili, sono soggette ad un continuo ricambio.
Quindi modelli nuovi, usati per poco tempo, gettati e sostituiti con altri ancora, in un sistema di accumulo e produzione continua, inserendosi, però, in un sistema tutt’altro che virtuoso. Infatti questo sistema produttivo genera un impatto ambientale e sociale importante sul nostro pianeta e sulle popolazioni che, in un contesto di sfruttamento, sono assoggettate a questa produzione. Una situazione nella quale grandi compagnie ingannano i consumatori cercando di migliorare la loro immagine, attraverso un greenwashing sempre più pericoloso.
Un’industria fuori controllo che si trascina enormi danni ambientali. La produzione tessile, infatti, ha bisogno di consumo massiccio di acqua; si stima che per produrre una maglietta di cotone occorrano 2.700 litri di acqua dolce. Un volume molto importante che se comparato, risulterebbe, per una persona, quanto dovrebbe bere in 2 anni e mezzo. Questo consumo di acqua oltre ad essere pericolosamente eccessivo, sottraendone ad un sistema mondiale già in crisi, lo inquina, degradando le risorse idriche. Nel 2020 il settore tessile, infatti, è stata la terza fonte di degrado idrico.
Circa il 20% dell’inquinamento idrico mondiale dell’acqua potabile è causato dall’industria tessile, causato dai vari processi industriali per la produzione di capi. La tintura e la finitura, come il lavaggio di capi sintetici che rilasciano ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari ed entrano nella catena alimentare. Si contano, così, mezzo milione di tonnellate di microplastiche presenti sul fondo degli oceani ogni anno. Una situazione preoccupante che si somma anche altri livelli di sfruttamento dell’ambiente.
Il desiderio di possesso e del rimanere al passo con la moda supera il “semplice” bisogno di vestirsi. Con una produzione continua di capi che, come dicevamo, essendo di bassa qualità, vengono cambiati regolarmente, producendo il 10% delle emissioni globali di carbonio. Una produzione che presenta un apparato inquinante che si palesa anche in altri fattori come un consumo di suolo fuori scala. In questo uso intensivo delle coltivazioni anche di cotone troviamo, inoltre, un altissimo uso di pesticidi. Si conta, infatti, che nelle etichette BCI (Better Cotton Initiative), che nasce con l’obiettivo di una produzione più sostenibile, vengano usati il 67% in più di pesticidi nella produzione tradizionali.
Infatti deve essere aperta una parentesi anche per il tipo di materiale usato per i capi. Parliamo, per esempio, del poliestere riciclato. La parola riciclo ci mostra un volto più “green“, ma nasconde dietro di un un Mr Hyde: infatti il poliestere recuperato dalle bottiglie di plastica (PET), una volta trasformato in tessuto, non è più riciclabile. Quindi il ciclo ecologico si ferma e il capo diventa indifferenziabile. Insieme a questo i lavaggi dei capi in poliestere rilasciano 1.900 microfibre, contaminando i sistemi acquatici.
Concludiamo, infine, parlando dei materiali viscosi, quindi costituite da fibre di cellulosa artificiali. Scelta che sembra risultare ecologica ma che, anche in questo caso, presenta un lato oscuro. La produzione di questo materiali, infatti, si ha attraverso un procedimento che presenta due passaggi essenziali al nostro dibattito: disboscamento e uso di sostanze nocive. Nel primo caso, si calcola che solo il 14% della cellulosa utilizzata per la produzione viscosa proviene da fonti, e quindi da foreste, certificate e sotto controllo. Molta della produzione prende le sue materie prime da un disboscamento pericoloso, in zone come il Canada, la Cina e, soprattutto, il polmone del pianeta l’Amazonia. Inoltre, per poter sfruttare la cellulosa, nel processo, viene usato il disolfuro di carbonio, sostanza nociva e altamente pericolosa.
Molti marchi della fast fashion, come Primark, H&M e Zara, hanno presentato una loro svolta ecologica, non certificata, che, non appena posizionata sotto l’occhio vigile di Greenpeace ha presentato molti inganni. Linee che, nonostante presentando etichette che definissero l’origine ecologica del prodotto, nascondevano parte della sua produzione.
Eccoci, quindi, davanti uno degli imperi inquinanti più importanti al mondo. Una produzione indiscriminata e senza controllo che sta mettendo in crisi il pianeta giorno dopo giorno, e per cosa? Consumismo e produzione di massa, tendenze e omologazione. Un gioco continuo che alla fine ci porta qui, davanti una catena alimentare invasa dalle microplastiche, un disboscamento incondizionato per l’86% dei materiali viscosi e, infine per l’accumulo del rifiuto generato.
Sì, perché all’interno di questo filo rosso che parte dall’inquinamento legato alla produzione, al tipo di materiale, allo sfruttamento delle materie prime, si arriva alla produzione di rifiuti. Ricordate? Il poliestere non è possibile riciclarlo, ma tutto il resto? Un ciclo che non viene chiuso e che oggi conta un numero bassissimo di tessuti riutilizzati. Ma quanto basso? Ben oltre quanto stiate immaginando. Solo l’1% di tutto quello che viene prodotto viene riciclato e riutilizzato.
Una produzione fuori controllo di rifiuti che vengono o bruciati, provocando non pochi danni ambientali, o accumulati in discarica. Ed ecco, quindi, chiudere il ciclo, il nostro ciclo inquinante: Atacama. Siamo nel deserto di Atacama, in Cile, una vastissima zona ricca di magnifici paesaggi. Nell’estremità occidentale di questo stupendo ambiente naturale troviamo la città di Alto Hospicio, nel nord del Cile. In questo luogo sorge una imponente discarica che si sostituisce alle setose dune del deserto, pari a 40.000 tonnellate di capi accatastati.
Abiti usati o di collezioni invendute, frutto della fast fashion e di capi di lusso che sbarcano nel porto di Iquique per arrivare poi nel deserto. Una parte di questi indumenti viene inserita nuovamente nel mercato del sud America, ma la maggior parte viene scaricata ad Atacama. Come è possibile che succeda? Una domanda lecita la cui risposta è tanto banale da essere pericolosa: vuoto normativo.
Nella legislazione cilena, infatti, non viene riconosciuto il materiale tessile come rifiuto, quindi non può costituire, legalmente, una discarica. Ecco quindi come le grandi aziende tessili e di distribuzione si ripuliscono i magazzini, rovesciando tonnellate di capi nel mezzo del deserto. Infine, per fare ulteriore spazio, coloro che oggi scaricano gli indumenti nella discarica, capita che gli diano fuoco, provocando un enorme danno ambientale e di salute per i cittadini di Alto Hospicio.
Di fronte questa situazione l’Unione Europea, attraverso il Grean Deal, ha deciso di prendere una posizione. Questa scelta nasce anche dall’esigenza di gestire una situazione che ha dimostrato, nel 2020 nella sola UE, un consumo medio di prodotti tessili che ha richiesto 400 mq di terreno, 9 m cubi di acqua e 391kg di materie prime, consumando un impronta di carbonio ci circa 270 kg.
Nel Green Deal dell’Unione Europea riguardante l’industria tessile, ha approvato a settembre 2023 una serie di obblighi per poter accedere al mercato europeo. L’obiettivo è quello di riuscire a realizzare un’economica circolare attraverso 4 ambiti di intervento. Ecodesign, quindi dei requisiti minimi ecologici; tracciabilità e trasparenza della filiera; responsabilità estesa del produttore e, infine, il commercio dei prodotti che sarà promosso attraverso gli accordi commerciali UE.
Cosa possiamo fare noi?
Ci troviamo davanti una crisi mondiale che sicuramente non può essere gestita dal solo consumatore, ma la consapevolezza è essenziale. Conoscere la provenienza dei capi, sostenere attività virtuose come il progetto Slow Fiber e saper trovare il giusto equilibrio fra necessità e desiderio. Siamo in un momento complesso per il nostro pianeta e per la nostra sopravvivenza, ed è essenziale essere parte del cambiamento.
Non c’è futuro senza cambiamento, non c’è cambiamento senza sacrificio.
Fonti:
Parlamento Europeo
GreenPeace
Water Footprint Nettwork
Canpyplanet
Textile Exchange
Slow Fiber
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